Live Free Play Hard – LA CORSA DI WILLIAM

William sputò a terra. Il sudore e la pioggia gli colavano dalle tempie, si mischiavano con il fango appena mangiato. Sputò di nuovo. La terra scricchiolava sotto i suoi denti. Mackie l’aveva appena falciato, facendolo finire disteso bocconi in una pozzanghera. Sotto gli occhi di tutti. Sotto le risate di tutti. Maldestro aveva tentato di avanzare palla al piede, ma Mackie, suo avversario, più forte e più grande di lui di un paio d’anni, era scivolato sul terreno bagnato e gli aveva soffiato il pallone da sotto gli occhi. Il contatto l’aveva poi costretto a divenire un tutt’uno col fango e con l’acqua.

Si scosse di dosso alla bene e meglio lo sporco, si rialzò in piedi e cercò con lo sguardo truce il suo rivale. Correva sulla fascia, incitato dai ragazzi assiepati a bordo campo incuranti della pioggia. Calciò forte il pallone verso il centro del terreno di gioco, proprio a pochi metri dalla porta. Un suo compagno prese al volo la sfera con le mani, finse un passaggio indietro, facendo cascare nella trappola un difensore, poi la lasciò cadere in terra e dopo un rimbalzò scoccò un potente tiro che terminò oltre la linea di goal. Avevano segnato. E tutto era partito dalla sua avventata azione. William imprecò. Suo fratello Thomas, correndogli vicino gli tirò una sberla sulla nuca: «Sei il solito deficiente».

William era furioso. Con se stesso, con gli altri. Non gliene andava bene una. Il professor Bloxam, che arbitrava la partita amichevole, scosse la testa e sbuffò amareggiato per il suo ennesimo errore. Poi fischiò forte il richiamo per la ripresa dell’incontro dopo il goal. I giocatori tornarono a schierarsi nelle proprie metà campo. Qualcuno dalle retrovie urlò che non avrebbe più passato un pallone a William. Qualcuno dal pubblico rise di nuovo. William era rosso in viso. Del marrone gli colava dai capelli, disegnando improbabili lentiggini sul naso e sulle guance. I suoi diciassette anni esplodevano per tensione e vitalità. Era una molla. Pronta a scattare. Pronto a colpire. Bastava solo un’altra occasione per dimostrare quello di cui era capace. Bastava solo un altro pallone.

«Will!», urlò sua madre, «Il pranzo! Non dimenticare il pranzo!». William rientrò di corsa a casa, sventagliando il suo pastrano nero già inzaccherato dalla pioggia mattutina. «Muoviti Will!», urlò suo fratello da fuori casa, «siamo già in ritardo!». Era così, ogni mattina. Una tazza di latte caldo, una fetta di pane sempre troppo duro, un qualcosa per pranzo avanzato dalla sera precedente che doveva bastare per due bocche adolescenti sempre troppo voraci e mai contente.

William viveva a quasi dieci miglia dal centro di Rugby, borgo che rasentava l’inutilità nella geografia inglese. L’unica nota positiva era la sua scuola. Centenaria, severa, formatrice. Chi aveva la possibilità di accedervi aveva molte più chance di successo sociale nella regione. Gli insegnanti erano i migliori della provincia e la politica caritatevole nei confronti degli abitanti di Rugby e dei villaggi vicini permetteva alle fasce più povere della popolazione di garantire un’istruzione ragguardevole ai propri figli. Dopo la guerra in Portogallo per fermare la follia napoleonica e la morte prematura del marito James, Ann si era ritirata con la sua pensione da vedova nei dintorni di Rugby. Una piccola mansarda che odorava della giovane età dei due figli ormai quasi adulti. Una misera sistemazione che puntava tutto sul futuro della prole. Anche se questo significava sacrifici quotidiani nel presente per lei e, molto spesso, per i figli, Thomas e William.

Ma, si sa, quando si è giovani e le forze sprizzano da tutti i pori, i sacrifici scivolano via come la rugiada sull’erba mattutina. E così William studiava e portava a casa bei risultati. Il professor Bloxam, malgrado la rigidità che lo contraddistingueva, non aveva potuto fare a meno di stillare parole al sapore di miele nel cuore della madre durante la consegna dei risultati di fine anno, la precedente estate. Era una di quelle, ormai sempre più rare, occasioni nelle quali Ann rimetteva il vestito bello. Quello con i fiori ricamati e le tonalità che lasciavano sognare l’India. Quello che teneva chiuso quasi sempre nell’armadio con l’uniforme del rimpianto padre. L’uniforme rossa con il dragone delle guardie inglesi, che tanto faceva scintillare gli occhi di William di ammirazione e timore quand’era ancora un bambino. «Suo figlio è molto acuto», aveva detto il professor Bloxam, «è veloce nella logica, persistente nella memoria. Lo studio è impeccabile e il piacere nella partecipazione lo pervade. I miei complimenti, signora Webb». Ann si era lasciata scorrere una lacrima orgogliosa sulla guancia. Forse una lacrima troppo temeraria vista l’improvvisa strigliata del professore. «Ma non diventi troppo tenera, signora. William è anche imprevedibile. Molto spesso non vuole sottostare alle regole. Si intestardisce e capita che i docenti lo debbano riprendere e punire». Ann aveva annuito, ritornata diligentemente seria. Aveva rassicurato che avrebbe mantenuto il pugno duro con il figlio.

Quell’autunno, quello del 1823, la pioggia sembrava non voler smettere più di scendere. Giorno dopo giorno bagnava gli impermeabili di Thomas e William mentre camminavano veloci verso la torre dell’orologio di Rugby. Lì, la mattina molto presto, verso le 7, si incontravano con i compagni e amici. Chi fumava del tabacco rubato ai genitori, chi ripassava prima di un test, chi raccontava delle avventure con le ragazze. Alcuni compagni arrivavano da lontano. Alloggiavano a Rugby in qualche struttura per studenti o si appoggiavano a qualche famiglia locale, che si ripagava così i costi di una camera in più o, semplicemente, arrotondava le fatiche del mese. I due giovani Webb Ellis erano diversi. Più sfortunati e più fortunati allo stesso tempo, per quel paradossale gioco del destino della carità anglosassone. Figli bastardi, con un fratello maggiore morto da bambino, una madre sola e mal equipaggiata, abbastanza vicini alla scuola da poter venire a piedi, erano gratuitamente inseriti all’interno del percorso di formazione.

Quella mattina in particolare, nel bel mezzo dell’autunno e delle sue piogge, William aveva il compito di storia. Bloxam, architetto, storico, antiquario, specialista dell’arte gotica, era intenzionato a far passare una brutta giornata ai suoi allievi. Come sempre la preparazione ai suoi test era impegnativa e William, dal canto suo, non faceva nulla per farsi amare e ben volere dal docente. Tant’è che si presentava con un programma ingigantito dai rimproveri di indisciplina in classe, che gli avevano fruttato capitoli aggiuntivi da studiare sull’arte gotica francese. Andò bene. Era preparato. Era brillante, proprio come il professore richiedeva e sua madre sperava. Terminò l’ultima risposta poco prima dell’avviso del termine della verifica. Consegnò l’elaborato e Bloxam, abbassando il naso sul suo scritto, curvò le labbra verso il basso. Forse disappunto. William vacillò un secondo. «Complimenti», bofonchiò il professore. Il ragazzo si illuminò nuovamente e si avviò a passo svelto verso l’uscita. Quel pomeriggio ci sarebbe stato l’incontro di football. A football non era bravo come a cricket, nel quale veramente eccelleva, ma gli piaceva quel gioco. Gli piaceva involarsi palla al piede. E adorava il fatto di poter usare le mani per passare la palla o agevolarsi nel calciare verso la porta. Sì, era davvero un gioco divertente. Bloxam lo guardò accelerare nel corridoio verso la sala comune. Era un ragazzo in gamba quel William. Se solo non avesse avuto il continuo ardire di sfidare le regole. Era un bravo ragazzaccio. Forse più adolescente degli altri. La sua era una vita dura, dalla quale stava spremendo tutto il succo buono possibile. Alla fine, anche se il suo ruolo gli imponeva di essere severo nei suoi confronti, ne era sinceramente affascinato. Provava quasi una sorta di ammirazione per lui. Giovane, sempre in movimento, sia mentalmente che con le gambe, esuberante e caparbio. Chissà quante ragazze avrebbe conquistato da adulto. Chissà quante soddisfazioni avrebbe potuto riportare alla madre stanca. Chissà.

Bloxam fischiò il nuovo avvio di gioco. La squadra di Thomas e William era sotto di una segnatura e non mancava molto al termine dell’incontro. L’errore del giovane Webb Ellis sembrava aver determinato le sorti della contesa. Il tifo per i suoi avversari cresceva ogni minuto di più e si abbatteva sulla sua coscienza e il suo orgoglio ferito peggio della pioggia incessante. Bastava solo un pallone. E si sarebbe rifatto. Ma i compagni lo ignoravano, intimoriti e arrabbiati allo stesso tempo. Non volevano dargli una seconda chance. Non era l’astro del campo da football, lui. Era solo un piccolo arrogante incapace di sottostare agli schemi e alle regole. Regole. Come le regole sociali non scritte. A Rugby tutti potevano andare a scuola. I più poveri come i più ricchi. I più poveri potevano ambire ad avere una vita migliore dei propri genitori, ma, alla fin fine, erano solo i più ricchi figli dei più ricchi a poter sperare in carriere importanti. Come Mackie, che gli correva a fianco contendendogli il pallone. Mackie che aveva già una carriera politica scritta nel suo futuro. Mackie che prendeva voti a malapena sufficienti e sparlava alle spalle di ogni singolo professore per poi fare il faccino da angelo quando veniva interpellato. Viscido, schifoso, vincente. William non poteva sopportarlo. Lui e il suo modo di essere. Lui e il suo status elevato. Lui e le sue regole che lo salvaguardavano fin dall’ira divina, se mai fosse stato necessario trovar una scappatoia dall’Inferno stesso.

I tuoni del temporale sopra di loro squassavano il cielo per lo scontro delle nubi, così come i giocatori in campo facevano nel contendersi la palla. Ora era in alto, in aria, bagnata e pesante. Mackie era più alto di lui di almeno una spanna e con le sue braccia lunghe e protese gli avrebbe soffiato senza troppa difficoltà la sfera. E con essa la sua opportunità, in quella che, probabilmente, sarebbe stata l’ultima azione del match. Mackie saltò. William gli si avvicinò nello slancio della corsa e, invece di frenare, lo urtò pesantemente, facendogli perdere l’equilibrio in volo. E con esso la possibilità di impadronirsi della palla, che cadde a terra, rotolando poco più in là sul fango putrido. William, sfruttando la forza del movimento, si gettò sul pallone, afferrandolo con le mani e rialzandosi prontamente. Mackie fu subito anch’egli di nuovo in piedi, biascicando improperi contro il suo diretto nemico e l’arbitro troppo morbido nell’accordare i falli. Gli si parò a lato, bloccandogli la visuale per un semplice passaggio a un compagno che accorreva chiamando a gran voce il pallone. La porta era troppo lontana per sperare in un tiro da goal e, con l’abile difesa di Mackie, il povero William non sembrava aver altre possibilità se non quella di calciare a casaccio il pallone in avanti, sperando in qualche fortunoso rimbalzo che favorisse la corsa di un compagno. «Non sai che fare, scemo?», lo schernì Mackie, alzando appositamente la voce per provocare l’ilarità degli allievi tra il pubblico.

La sua era una vita dura. E la vita dura ti porta a sperare in un futuro fatto di soddisfazioni e libertà. Chi ha una vita dura desidera una vita libera. Senza condizionamenti. E per raggiungere una vita veramente libera bisogna imparare a giocare la propria vita nell’unico modo che hai imparato a conoscere. Giocare duro. Per vivere libero.

William guardò il suo avversario. Poi il suo sguardo guizzò a Bloxam, che fissava l’orologio da taschino, pronto col fischietto. Era l’ultima azione, l’ultima occasione. Le regole alla fine sono fatte per essere infrante. Non c’è salvezza senza esser prima passati dalla dannazione. Questo diceva sempre il pastore della Chiesa anglicana, a cui andava ogni domenica per la funzione della Cena. Sorrise. Mackie lo guardò sorpreso. Poi partì spedito, correndo come un forsennato con la palla in mano. «Ma che fai?», gli urlò dietro suo fratello, scuotendo come un matto il pugno per aria. Tra il pubblico c’era chi rideva, chi strillava inferocito, chi scherniva e riprendeva il giovane William Webb Ellis, che non era manco capace di seguire le semplici regole del football. Il professor Bloxam rimase impietrito, stupito e stregato dalla capacità inventiva del ragazzo. Doveva fischiare, lo sapeva. Ma non aveva trovato il coraggio. Gli era mancato il fiato. William arrivò fino alla linea di goal. La oltrepassò e schiacciò il pallone a terra. Tutti, in campo e fuori, tacquero, volgendo gli occhi all’arbitro. Bloxam sospirò. «Il tempo è finito, avevo già fischiato, ma i tuoni del temporale hanno coperto il suono. Rientrate e lavatevi. Tra poco inizieranno le lezioni pomeridiane».

William rientrò con gli altri. Mackie con i suoi rideva di lui. Thomas e gli altri compagni lo spintonarono, accusandolo di essere uno scemo, un ribelle, un pirata del football. A lui non interessava. Lui giocava a Rugby. E si divertiva quel tanto che bastava per distrarsi un po’ dal grigiore e dalle difficoltà della vita quotidiana.

La targa che commemora il gesto di William, l’inventore del rugby secondo la leggenda.

Fatti, persone e ambientazione di questo racconto prendono spunto dalla storia leggendaria di William Webb Ellis e di come la sua folle corsa fece nascere il gioco del rugby football. Ovviamente la mia non è una storia vera, ma una romanzata rivisitazione, scritta col solo intento di allietare voi lettori e amici pirati.

#LiveFreePlayHard

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *