Favaro: tuffo nel passato

Simone Favaro. Un’icona del rugby azzurro degli ultimi anni. Un gladiatore in campo. Un mostro per l’applicazione e l’amore dimostrati nei confronti del nostro sport ovale. Abbiamo voluto intervistarlo senza fargli nemmeno una domanda sul suo ritiro della settimana scorsa. La fine del campionato di Top12 2018/19 ha sancito anche il termine della sua carriera. Benetton Treviso, Glasgow Warriors, Fiamme Oro negli ultimi due anni. In mezzo la nazionale, i Barbarians. Noi. Che lo abbiamo osannato.

Abbiamo quindi deciso di fargli qualche domanda sul suo passato. I suoi inizi, i suoi ricordi indelebili, le delusioni.

Ne è uscito un ritratto di uomo e rugbista potente e intelligente. Un condensato di emozioni che vi invitiamo ad assaporare.


Ciao Simone, grazie per la tua disponibilità.

Ma figurati, è sempre un piacere parlare di rugby.

Ecco a proposito di questo, vorrei iniziare chiedendoti a che età, in che occasione e quando ti sei innamorato del rugby?

È stata subito chimica, mi hanno reclutato a scuola nell’ambito del progetto sport a Treviso; avevo due fratelli più grandi e più bravi di me – ci tiene a sottolineare – a giocare a calcio. Avevo 10 anni, venivo da una famiglia calciofila, ero e sono tuttora appassionato di calcio, ma scarso come giocatore [ride], quando ti mettono in porta o sei l’ultimo ad essere scelto devi farti due domande. Mi sono detto “proviamo questo rugby, vediamo se mi dà più soddisfazione”. È andata bene, scelta giusta. È stato subito amore ed è andata sempre meglio.

Da quel momento il rugby è diventato il tuo grande amore?

Sai come si dice, l’appetito vien mangiando, la passione è cresciuta sempre di più ed è stato alle superiori che ho deciso “voglio diventare un giocatore di rugby”. Mi appassionava, mi piaceva e mi ha portato bene.

Direi proprio di sì, quindi da lì è partita la tua grande carriera, da Benetton a Glasgow. E qui ti faccio la prima domanda scomoda, dopo due anni a Glasgow la scelta delle Fiamme Oro. Pur comprendendo la tua scelta, anche di vita, non c’è stata davvero nessun’altra proposta?

Guarda, sono onesto, mi è stato detto un po’ tardi a livello di mercato che Glasgow non intendesse rinnovarmi il contratto. Io lì mi trovavo benissimo, mi sentivo come a casa, stavo anche cominciando a costruirmi un futuro dopo il rugby. Fin dall’inizio della mia carriera mi ero già posto un limite intorno ai 32 anni, per il mio modo di vivere ed interpretare il rugby, vissuto sempre al cento per cento. Pur essendo una parte importantissima della mia vita, non mi sono mai illuso, neanche da piccolo, che potessi continuare da giocatore a lungo, non era fisiologico, e quindi mi son detto “Sai che c’è? Voglio diventare il giocatore più forte del mondo”. Ed anche se non lo sono diventato, perché è falso chi lo dice, lo riconosco anch’io, sono comunque diventato il miglior Simone Favaro del mondo. Cercavo un top club onestamente. Anche in Italia non ho trovato tanta passione quando ho detto di voler tornare, quindi ho valutato questa possibilità [quella delle Fiamme Oro, ndr] tra me e me. Ho chiesto al signor Forgione se ci fosse questa disponibilità: l’anno scorso sono entrato come esterno, quest’anno sono entrato a tutti gli effetti. L’ho fatto per dimostrare che ci credo a tutti gli effetti. Io ho sempre voluto fare il giocatore di rugby, ho sempre cercato qualcosa che rispecchiasse la mia indole anche nella filosofia del posto di lavoro in generale e ti dirò che la Polizia riflette la personalità che ho. Mi sono posto l’obiettivo dei due anni senza pensare troppo al livello tecnico, perché sarebbe stato stupido da parte mia, ma tenendo sempre l’obiettivo della passione. Nonostante abbia messo tutta la mia professionalità mi sono calate le motivazioni, eccetera eccetera, vedevo tanti giovani nel mio ruolo crescere. Allora ho detto “Dottor Forgione non voglio diventare la brutta copia di me stesso”.

Perché da appassionato di questo sport, da innamorato di rugby, dico che questo deve essere vissuto da chi ha passione e motivazione. È stata una risposta piratesca? [ridacchia]

Passiamo alla tua esperienza azzurra, che ti ha visto tra i protagonisti degli ultimi anni. Qual è il momento più indelebile, quello che ti porterai dentro fino a ottant’anni?

Che domanda difficile! Essendo uno che ha sempre voluto di più, ho vissuto tutti i momenti a pieno. Certamente l’ambizione di vestire la maglia azzurra ci dev’essere e non dimenticherò mai la prima volta che l’ho indossata, ma i risultati me li posso guardare su Wikipedia, se c’è una cosa che voglio trasmettere ai miei figli in futuro (i miei futuri figli), quello che mi terrò sempre stretto e che mi rimarrà indelebile sono i viaggi che ho fatto e le persone con le quali sono entrato in contatto. Questo è ciò che rende bellissimo il mondo del rugby.

Infine l’ultima domanda, quella più cazzara, con la quale concludiamo. Qual è il giocatore che hai incontrato che, a tuo avviso, è il più pirata di tutti?

Direi me stesso, onestamente. Senza mancare di rispetto a nessuno, ma mi sono sempre ritenuto io il più pirata, pur mantenendo degli ottimi rapporti coi miei compagni di squadra, ho sempre voluto esserlo io. Scusa, sai.


E allora grazie pirata. Per questa intervista. Per le emozioni. Per i ricordi.

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